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Referendum sulle trivelle in mare: la Lega Nord vota SI'

In considerazione dell’avvicinarsi della data del 17 aprile, iniziamo un’analisi delle posizioni relativamente al quesito referendario sulle trivellazioni. Sì, parliamo di referendum. In pochi lo sanno, ma in quella data si svolgerà una consultazione referendaria sul tema delle trivellazioni in mare per l'estrazione di gas e petrolio. Il Comitato promotore del referendum è composto da 9 regioni: Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise.
Il consiglio della Lega Nord è quello di recarsi alle urne e votare SI. Nelle prossime settimane avremo modo di analizzare la tematica con approfondimenti ed interviste.



Dati tecnici sul referendum:
  • Referendum abrogativo, ovvero uno dei pochi strumenti di democrazia diretta che la Costituzione offre ai cittadini per chiedere la cancellazione, in tutto o in parte, di una legge dello Stato.
  • Si vota nella sola giornata di domenica 17 aprile.
  • Si vota in tutta Italia e possono votare tutti i cittadini italiani maggiorenni.
  • Votano anche gli italiani residenti all’estero.
  • Bisogna votare Sì per dire stop alle trivellazioni.
  • Affinché il referendum vada a buon fine occorre che vada a votare almeno il 50% più uno degli aventi diritto al voto e che la maggioranza dei votanti si esprima con un “Sì”.

Il testo del quesito:

«Volete voi che sia abrogato l’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, “Norme in materia ambientale”, come sostituito dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di Stabilità 2016)”, limitatamente alle seguenti parole: “per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale”?».

Cosa si chiede esattamente con il referendum del 17 aprile 2016?
Con il referendum del 17 aprile si chiede agli elettori di fermare definitivamente le trivellazioni in mare. In questo modo si riusciranno a tutelare definitivamente le acque territoriali italiane.
Nello specifico si chiede di cancellare la norma che consente alle società petrolifere di cercare ed estrarre gas e petrolio entro le 12 miglia marine dalle coste italiane senza limiti di tempo. Nonostante, infatti, le società petrolifere non possano più richiedere per il futuro nuove concessioni per estrarre in mare entro le 12 miglia, le ricerche e le attività petrolifere già in corso non avrebbero più scadenza certa. Se si vuole mettere definitivamente al riparo i nostri mari dalle attività petrolifere occorre votare “” al referendum. In questo modo, le attività petrolifere andranno progressivamente a cessare, secondo la scadenza “naturale” fissata al momento del rilascio delle concessioni. Ad oggi vi sono 63 concessioni ministeriali per ricerche in mare.


È possibile che, qualora il referendum raggiunga la maggioranza dei “Sì”, il risultato venga poi “tradito”?
A seguito di un eventuale esito positivo del referendum, il Parlamento o il Governo non potrebbero modificare il risultato ottenuto. La cancellazione della norma che al momento consente di estrarre gas e petrolio senza limiti di tempo sarebbe immediatamente operativa. L’obiettivo del referendum è chiaro e mira a far sì che il divieto di estrazione entro le 12 miglia marine sia assoluto. Come la Corte costituzionale ha più volte precisato, il Parlamento non può successivamente modificare il risultato che si è avuto con il referendum, altrimenti lederebbe la volontà popolare espressa attraverso la consultazione referendaria. Qualora però non si raggiungesse il quorum previsto perché il referendum sia valido (50% più uno degli aventi diritto al voto), il Parlamento potrebbe fare ciò che vuole: anche prevedere che si torni a cercare ed estrarre gas e petrolio ovunque.

È vero che se vincesse il “Sì” si perderebbero moltissimi posti di lavoro?
Un’eventuale vittoria del “Sì” non farebbe perdere alcun posto di lavoro: neppure uno. Un esito positivo del referendum non farebbe cessare immediatamente, ma solo progressivamente, ogni attività petrolifera in corso. Prima che il Parlamento introducesse la norma sulla quale gli elettori sono chiamati alle urne il prossimo 17 aprile, le concessioni per estrarre avevano normalmente una durata di trenta anni (più altri venti, al massimo, di proroga). E questo ogni società petrolifera lo sapeva al momento del rilascio della concessione. Oggi non è più così: se una società petrolifera ha ottenuto una concessione nel 1996 può – in virtù di quella norma – estrarre fino a quando lo desideri. Se, invece, al referendum vincerà il “Sì”, la società petrolifera che ha ottenuto una concessione nel 1996 potrà estrarre per dieci anni ancora e basta, e cioè fino al 2026. Dopodiché quello specifico tratto di mare interessato dall’estrazione sarà libero per sempre.
E la “corsa al petrolio” nel Mediterraneo?
Anche i nostri dirimpettai che si affacciano sull’Adriatico stanno rinunciando alle estrazioni. Il Primo Ministro Croato Tihomir Oreskovic ha annunciato di recente una moratoria delle perforazioni. I NoTriv pugliesi hanno chiesto al governo montenegrino, oltre a quello italiano, di bloccare ogni attività di ricerca per evidenti rischi ambientali e per il pericolo di intercettare ordigni inesplosi risalenti alla 2° guerra mondiale e a quella del Kossovo.

L’Europa cosa ne dice?
La norma voluta dal governo è palesemente illegittima, in quanto prevedendo una durata a tempo indeterminato delle concessioni viola le regole sulla libera concorrenza. La previsione di legge, in altri termini, si pone in contrasto con il diritto dell’Unione Europea e, segnatamente, con la direttiva 94/22/CE (recepita dall’Italia con d.lgs. 25 novembre 1996, n. 625), la quale, al fine di realizzare taluni obiettivi, tra cui il rafforzamento della competitività economica e la garanzia dell’accesso non discriminatorio alle attività di prospezione, di ricerca e di coltivazione degli idrocarburi e al loro esercizio, secondo modalità che favoriscono una maggiore concorrenza nel settore, prescrive che “la durata dell’autorizzazione non superi il periodo necessario per portare a buon fine le attività per le quali essa stata concessa” e che solo in via eccezionale (e non in via generale e a tempo indeterminato) il legislatore statale possa prevedere proroghe della durata dei titoli abilitativi, “se la durata stabilita non sufficiente per completare l’attività in questione e se l’attività stata condotta conformemente all’autorizzazione”. D’altra parte, il caso della direttiva Bolkestein, e cioè della legittimità delle proroghe delle concessioni balneari (sulla quale la Corte di giustizia si pronuncerà a breve), dovrebbe insegnare qualcosa. Questo vuol dire che, indipendentemente da una procedura di infrazione che l’Unione europea potrebbe aprire nei confronti dell’Italia, qualora la norma sulla durata delle concessioni arrivasse sul tavolo della Corte costituzionale, questa ne dichiarerebbe quasi certamente l’illegittimità per violazione dell’art. 117, primo comma, della Costituzione. Se ciò accadesse, le concessioni tornerebbero di nuovo a scadere secondo la data originariamente prevista. Proprio come si propone ora con il referendum abrogativo. Ma con una differenza di non poco conto: che in questa evenienza, non conoscendosi ancora né l’ora né il giorno, sarebbe troppo tardi per intervenire e salvare i lavoratori che il governo dice di voler difendere e invece non tutela.

L’Italia dipende fortemente dalle importazioni di petrolio e gas dall’estero. Non sarebbe opportuno, al contrario, investire nella ricerca degli idrocarburi e incrementare l’estrazione di gas e petrolio?

L’aumento delle estrazioni di gas e petrolio nei nostri mari non è in alcun modo direttamente collegato al soddisfacimento del fabbisogno energetico nazionale. Gli idrocarburi presenti in Italia appartengono al patrimonio dello Stato, ma lo Stato dà in concessione a società private – per lo più straniere – la possibilità di sfruttare i giacimenti esistenti. Questo significa che le società private divengono proprietarie di ciò che viene estratto e possono disporne come meglio credano: portarlo via o magari rivendercelo.
Allo Stato esse sono tenute a versare solo un importo corrispondente al 7% del valore della quantità di petrolio estratto o al 10% del valore della quantità di gas estratto. Non tutta la quantità di petrolio e gas estratto è però soggetta a royalty.
Le società petrolifere non versano niente alle casse dello Stato per le prime 50.000 tonnellate di petrolio e per i primi 80 milioni di metri cubi di gas estratti ogni anno e godono di un sistema di agevolazioni e incentivi fiscali tra i più favorevoli al mondo.
Nell’ultimo anno dalle royalty provenienti da tutti gli idrocarburi estratti sono arrivati alle casse dello Stato solo 340 milioni di euro.

Il rilancio delle attività petrolifere non costituisce un’occasione di crescita per l’Italia?
Secondo le ultime stime del Ministero dello Sviluppo Economico effettuate sulle riserve certe e a fronte dei consumi annui nel nostro Paese, anche qualora le estrazioni petrolifere e di gas fossero collegate al fabbisogno energetico nazionale, le risorse rinvenute sarebbero comunque esigue e del tutto insufficienti. Considerando tutto il petrolio presente sotto il mare italiano, questo sarebbe appena sufficiente a coprire il fabbisogno nazionale di greggio per 8 settimane.
La ricchezza dell’Italia , in verità, un’altra: per esempio il turismo, che contribuisce ogni anno circa al 10% del PIL nazionale, dà lavoro a quasi 3 milioni di persone, per un fatturato di circa 160 miliardi di euro; la pesca, che si esercita lungo i 7.456 km di costa entro le 12 miglia marine, produce circa il 2,5% del PIL e dà lavoro a quasi 350.000 persone; il patrimonio culturale, che vale 5,4% del PIL e che dà lavoro a circa 1 milione e 400.000 persone, con un fatturato annuo di circa 40 miliardi di euro; il comparto agroalimentare, che vale l’8,7% del PIL, dà lavoro a 3 milioni e 300.000 persone con un fatturato annuo di 119 miliardi di euro e che nel solo 2014 ha conosciuto l’esportazione di prodotti per un fatturato di circa 34,4 miliardi di euro; e soprattutto la piccola e media impresa, che conta circa 4,2 milioni di piccole e medie “industrie” (e, cioè , il 99,8% del totale delle industrie italiane), e che costituisce il vero motore dell’intero sistema economico nazionale: tali imprese assorbono l’81,7% del totale dei lavoratori del nostro Paese, generano il 58,5% del valore delle esportazioni e contribuiscono al 70,8% del PIL. Il solo comparto manifatturiero, che conta circa 530.000 aziende, occupa circa 4,8 milioni di addetti, fattura 230 miliardi di euro l’anno, equivalente al 13% del PIL nazionale, e contribuisce al totale delle esportazioni del Made in Italy nella misura del 53,6%.

Però gli italiani utilizzano sempre di più la macchina per spostarsi. Non è un controsenso?
Ciò che si estrae in Italia non è necessariamente destinato alla produzione del carburante per le autovetture ed ancor meno per quelle in circolazione nel nostro Paese. Ad ogni modo, gli italiani si trovano spesso costretti ad utilizzare l’auto di proprietà. A fronte di un sistema di trasporti pubblici gravemente lacunoso non hanno praticamente scelta. In alcuni Paesi del Nord Europa l’utilizzo dell’auto privata spesso avvertito come un “peso” e ritenuto economicamente non vantaggioso.
Le cose andrebbero diversamente se si perseguisse una seria politica dei trasporti pubblici. Secondo l’Unione Europea, rispetto agli altri Stati membri, l’Italia al riguardo agli ultimi posti.

Cosa ci si attende?
Il voto referendario è uno dei pochi strumenti di democrazia a disposizione dei cittadini italiani ed è giusto che i cittadini abbiano la possibilità di esprimersi anche sul futuro energetico del nostro Paese.
Nel dicembre del 2015 l’Italia ha partecipato alla Conferenza ONU sui cambiamenti climatici tenutasi a Parigi, impegnandosi, assieme ad altri 185 Paesi, a contenere il riscaldamento globale entro1,5 gradi centigradi e a seguire la strada della decarbonizzazione. Fermare le trivellazioni in mare è in linea con gli impegni presi a Parigi e contribuirà al raggiungimento di quell’obiettivo. È necessario, nel frattempo, affrontare il problema della transizione energetica, puntando anche sul risparmio e sull’efficienza energetica e investendo da subito nel settore delle energie rinnovabili, che potrà generare progressivamente migliaia di nuovi posti di lavoro. Il tempo delle fonti fossili è scaduto: è ora di aprire ad un modello economico alternativo.

Perché questo referendum?
Per tutelare i mari italiani, anzitutto. Il mare ricopre il 71% della superficie del Pianeta e svolge un ruolo fondamentale per la vita dell’uomo sulla terra. Con la sua enorme moltitudine di esseri viventi vegetali e animali – dal fitoplancton alle grandi balene – produce, se in buona salute, il 50% dell’ossigeno che respiriamo e assorbe fino ad 1/3 delle emissioni di anidride carbonica prodotta dalle attività antropiche.
La ricerca e l’estrazione di idrocarburi ha un notevole impatto sulla vita del mare: la ricerca del gas e del petrolio attraverso la tecnica dell’airgun incide, in particolar modo, sulla fauna marina: le emissioni acustiche dovute all’utilizzo di tale tecnica può elevare il livello di stress dei mammiferi marini, può modificare il loro comportamento e indebolire il loro sistema immunitario.
Ricerca e trivellazioni offshore costituiscono un rischio anche per la pesca. Le attività di prospezione sismica e le esplosioni provocate dall’uso dell’airgun possono provocare danni diretti a un’ampia gamma di organismi marini – cetacei, tartarughe, pesci, molluschi e crostacei – e alterare la catena trofica.
Senza considerare che i mari italiani sono mari “chiusi” e un incidente anche di piccole dimensioni potrebbe mettere a repentaglio tutto questo. Un eventuale incidente – nei pozzi petroliferi offshore e/o durante il trasporto di petrolio – sarebbe fonte di danni incalcolabili con effetti immediati e a lungo termine sull’ambiente, la qualità della vita e con gravi ripercussioni gravissime sull’economia turistica e della pesca.

Le colpe del governo Renzi:
Con lo Sblocca Italia il governo ha dichiarato “strategiche” le trivellazioni, esautorando di fatto Regioni ed Enti Locali da ogni decisione. Nel tentativo di boicottare il referendum, il governo ha negato il suo accorpamento con il voto delle Amministrative, causando un esborso di oltre 360 milioni di euro.

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