«IN QUEL TEMPO Monza e la Brianza erano afflitti dal fenomeno dei sequestri di persona. La ’ndrangheta stava mettendo le sue radici dopo che negli anni ’70 l’istituto del soggiorno obbligato aveva portato in questo territorio decine di malavitosi provenienti dalla Calabria. In un ambiente ricco come questo fecero salire al Nord i loro compari e si organizzarono». A raccontarlo un testimone d’eccezione: si chiama Sergio Boscarato, ha 76 anni e oggi è generale in congedo dei carabinieri. Fra il 1982 e il 1986, con il grado di tenente colonnello, fu comandante del Gruppo di Monza dei carabinieri.
Anni difficili, anni di conflitti a fuoco, criminalità violenta, omicidi, rapine. E, appunto, sequestri di persona: una ventina quelli registrati nella sola Brianza fra il 1975 e il 1985, quattro quelli vissuti (e risolti) in prima persona da Boscarato nel periodo di permanenza a Monza. Il generale li ricorda tutti. La sera dell’antivigilia di Natale del 1982 il primo caso: nell’Alta Brianza viene rapito Pierantonio Colombo, 39 anni, titolare della «Seven Salotti» di Giussano. Il 2 marzo 1983 a finire nelle mani dei rapitori è una donna di Seregno, Isabella Schiatti Trabattoni, 40 anni, moglie di un mobiliere. Il 14 marzo 1983 a Seregno tocca a Giovanni Cesana, 47 anni, mobiliere e industriale. Il 2 ottobre un altro imprenditore nel settore del mobile, il 51enne Ambrogio Elli, contitolare dalla Feg di Giussano, «prelevato» all’uscita dalla fabbrica. I carabinieri di Monza, dopo febbrili operazioni che li portano su e giù per l’Italia, riuscirono a liberarli tutti. Anche se a volte il riscatto o parte di esso fu pagato. «Ai tempi del Ventennio fascista - ricorda Boscarato - i criminali pericolosi venivano mandati al confino in aree povere e isolate. Tutto cambiò dopo il 1970, quando il “confino” assunse il nome di “soggiorno obbligato” e i delinquenti pericolosi vennero inseriti in zone che dovevano soltanto avere il requisito di essere lontane da quella di nascita. Fu così che dalla Calabria gli esponenti della ’ndrangheta si trovarono a “soggiornare obbligatoriamente” in centri abitati ricchi e operosi della Brianza quali Giussano, Seregno, Desio, Lissone, Arcore e altri ancora. Pessima scelta... questi personaggi dediti per indole alla delinquenza organizzata, figli del “brigantaggio”, si vennero così a trovare nelle migliori condizioni. Cominciarono a individuare personaggi ricchi e indifesi della zona per rapirli».
GLI ’NDRANGHETISTI rivelarono subito le loro raffinate capacità. «Prima di tutto il “capo” creava tre gruppi di lavoro, che non dovevano assolutamente conoscersi fra di loro. Il primo gruppo, il “gruppo prelievo”, aveva il compito di rapire l’ostaggio servendosi di un’auto rubata. Il “gruppo trasporto” lo portava su un’auto pulita nel luogo di detenzione, dove sarebbe passato nelle mani del terzo gruppo, il “gruppo custodia”, composto da latitanti». La vita del prigioniero diventava sacra, perché «un ostaggio vivo - dicevano brutalmente - è un pollo che può fare le uova d’oro, mentre un ostaggio morto non vale niente». I primi capitali della ’ndrangheta al Nord arrivarono così, prima che i fiumi di denaro accumulati fossero investiti in nuovi affari: droga e appalti.
Articolo di dario.crippa@ilgiorno.net da www.ilgiorno.it